"Ho scelto la vita e sono diventata libera"
Ad Arezzo l'ultimo commovente discorso pubblico di Liliana Segre
09 ottobre 2020
Due ore. Due ore di ricordi, di storia, di dolore, di «un perdono che ancora non riesco a dare», ma anche di speranza verso chi ha avuto il privilegio di poterla ascoltare ancora una volta. Tanto è durato l’ultimo incontro pubblico di Liliana Segre, senatrice a vita e sopravvissuta alla Shoah, che si è tenuto venerdì 9 ottobre all’interno della Cittadella della Pace di Rondine, in provincia di Arezzo.
“Grazie Liliana”, questo il titolo di un incontro che, oltre alle massime cariche istituzionali, ha visto partecipare molti studenti di scuole di ogni ordine e grado: studenti con i quali la stessa Liliana Segre ha effettuato un vero e proprio “passaggio di testimone”. Dopo trent’anni di memoria storica, di spiegazioni e lezioni tenute in Italia e all’estero (l’ultima era stata lo scorso gennaio a Bruxelles al Parlamento Europeo in occasione della Giornata della Memoria) per raccontare quella pagina ignobile della nostra storia recente e far in modo che tragedie simili non si ripetano mai più, la senatrice ha deciso di fermarsi. «Nel corso di questi anni ho parlato con tanti ragazzi – ha spiegato durante il suo intervento – perché sono loro ad avere il compito di portare avanti questa testimonianza. Oggi ringrazio tutte le cariche istituzionali che sono intervenute, ma il mio grazie più grande è per voi (i giovani lì presenti, ndr) che siete venuti qui per ascoltarmi».
Segre ha ripercorso le tappe della sua vita. Da bambina che amava andare a scuola «perché non avevo fratelli o cuginetti con cui giocare», a inaspettata colpevole «di essere nata»: l’espulsione dalla scuola, il tentativo di fuga in Svizzera, l’arresto con il papà, la detenzione in carcere, il viaggio in treno dal binario 21 della stazione Centrale di Milano, il campo di concentramento. C’è tutto nelle parole di Liliana Segre. Anche cose che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. C’è tutto anche negli occhi: occhi stanchi, feriti, ma vivi. Gli occhi di chi, a carissimo prezzo, è stata testimone della sete di sangue della “bestia umana”, come i Nomadi definivano i nazisti nella loro canzone “Auschwitz”. Ecco, ad Auschwitz Liliana ci è entrata per davvero: ci ha vissuto, ci ha lasciato il suo papà da cui è stata separata appena scesi dal treno della morte. Ci ha perso la sua amica Janine, alla cui memoria è stato dedicato lo spazio che sorgerà nell’arena all’interno della Cittadella. Janine era una ragazzina francese di 12 anni internata nel lager con Liliana: «Quando ripenso al momento in cui non l’ho più vista, mi rendo conto di cosa io fossi diventata lì dentro. Dell’egoismo che si matura in quelle condizioni perché la voglia e la fame di vita è troppa – racconta con la voce ancora tremolante – Era il giorno di una delle selezioni all’interno del campo. Veniva deciso chi avrebbe continuato a vivere e chi sarebbe finito nelle camere a gas. Noi ragazze venimmo fatte spogliare nude per sfilare davanti a tre ufficiali, tra cui il famigerato dottor Mengele. Io passai. Janine, qualche giorno prima, perse due falangi mentre lavoravamo: si presentò con un fazzoletto per coprire la mano, ma non servì. Io non ebbi nemmeno la spinta di girarmi un’ultima volta verso di lei. Di chiamarla. Ero felice di essere “passata” e non pensai a cosa la stesse aspettando».
Il tema su cui insiste Liliana nel corso del racconto, è quello della diversità, dell’essere diventata “l’altra” subito dopo la promulgazione delle leggi razziali: «Anche da adulta è capitato di trovarmi con delle mie amiche che, pur senza farlo con cattiveria, quando dovevano parlare di me con qualcun altro mi identificavano come “la mia amica ebrea” – spiega alla platea – Quello che mi hanno impresso sul braccio appena arrivata ad Auschwitz, il mio numero 75190, improvvisamente era diventato il mio nuovo nome. E guai a non imparare a pronunciarlo in tedesco: si poteva morire anche semplicemente non rispondendo all’appello della mattina». E prima ancora, il rapporto con il papà: «Ricordo che prima di partire per “destinazione ignota” venimmo rinchiusi nel carcere di San Vittore a Milano. Mio padre aveva capito che non potevamo fare più nulla – prosegue – e viveva nel dramma di non essere riuscito e di non riuscire a fare nulla per salvarci. Si invertirono i ruoli: ero io a prendermi cura di lui e a fargli capire che l’importante era essere lì insieme. A voi giovani dico, non vergognatevi di abbracciare i vostri genitori: i genitori non sono sempre forti, spesso hanno bisogno di un gesto di amore e di calore. Dite loro che li amate, stringeteli forte perché ne hanno bisogno come ne avete bisogno voi».
Poi l’uscita dal lager. La “marcia della morte” durata mesi prima della definitiva liberazione. I cadaveri sul ciglio della strada, le compagne di viaggio che cedevano non sopportando più la stanchezza, la magrezza, il freddo e la fame: «Mentre camminavamo tra un paese e l’altro non incontrammo nessuno – racconta Liliana – solo finestre sprangate. Brucavamo l’erba per mettere qualcosa sotto i denti già compromessi dalle condizioni igieniche in cui ci facevano stare ad Auschwitz. Un giorno incontrammo un cavallo che giaceva morto a terra: beh, iniziammo a mangiarlo. Fu una cosa terribile che diede la dimensione di cosa eravamo diventate: in quel momento eravamo quello che i nazisti volevano che noi diventassimo». Ma Liliana era diversa.
«Eravamo seguite da un ufficiale nazista che aveva ormai dismesso la divisa. Aveva paura di noi perché le notizie che giungevano sulla guerra volevano i tedeschi sempre più in difficoltà davanti all’avanzare degli Alleati. Un giorno si è spogliato davanti a noi e ha posato a terra la pistola – conclude Liliana – E in quegli anni tante volte avevo visto usare le pistole. In un attimo pensai che l’avrei potuta prendere, puntarla contro di lui e ucciderlo. Ma non lo feci. Lì capii che sono incapace di uccidere qualcuno. Lì capii che avevo vinto io e non loro. Lì capii che ero quella donna di pace che sono ancora oggi».
Fonte: Avis Nazionale